Il 2023 della politica americana
I sondaggi negativi su Biden, le primarie Repubblicane, le bagarre del Congresso e non solo: il racconto del 2023 della politica americana
Biden, l'età e i pessimi sondaggi
Il 2023, per Joe Biden, è stato un anno tutt'altro che positivo: nel corso dei mesi, infatti, si sono susseguiti uno dietro l'altro una serie di pessimi sondaggi per l'inquilino della Casa Bianca, che appare indietro in gran parte delle rilevazioni. Il problema principale riguarda l'età del presidente, che attualmente ha ottant'anni e che, qualora dovesse essere rieletto, chiuderebbe il secondo mandato a 86. Tre quarti degli americani, infatti, ritengono Joe Biden “troppo vecchio per governare”.
Allo stesso tempo va ricordato anche come il suo principale avversario, l’ex presidente Donald Trump, nel 2024 avrà 78 anni e finirebbe il mandato a 82. In questo caso, però, solo la metà degli americani ritiene che questo sia un problema. Questa differenza di giudizio è dovuta in particolar modo al fatto che tra i Democratici a pensarlo è il 69% per Biden e il 71% per Trump, mentre tra i Repubblicani lo dice l’89% per l’attuale inquilino della Casa Bianca e solo il 28% per il tycoon.
Non sono solo i sondaggi sull'età a preoccupare il presidente: anche i dati sulle elezioni negli stati chiave sono al momento negativi. Una rilevazione condotta nel mese di dicembre da Fox News mostra come l'attuale presidente perderebbe sia contro Trump che contro Nikki Haley, mentre la sfida con Ron DeSantis terminerebbe in pareggio. Il 54% dei Democratici intervistati, inoltre, preferirebbe un altro candidato per il partito.
Secondo un sondaggio nazionale di Morning Consult su 5.840 elettori registrati, Trump batterebbe Biden 43-41%. Inoltre, l'attuale presidente perderebbe contro il suo predecessore anche in sette Stati chiave: Arizona (+3 Trump), Georgia (+7 Trump), Michigan (+4 Trump), Nevada (+5 Trump), North Carolina (+11 Trump), Pennsylvania (+1 Trump) e Wisconsin (+6 Trump). Dati simili si ritrovano in un sondaggio del New York Times/Siena Collage. L'inquilino della Casa Bianca, inoltre, è in difficoltà sia con l'elettorato di colore che con i giovani.
Insomma, il quadro è tutt'altro che positivo: va sottolineato, però, come i sondaggi tenuti a diverso tempo dalle presidenziali vadano presi con le pinze e che Biden potrebbe recuperare da qui a novembre. Molto dipenderà da chi sarà il suo sfidante e dalla situazione in cui si troverà a correre Donald Trump, al centro di diverse indagini e vicende legali.
La situazione nel Partito Repubblicano
All'interno del Partito Repubblicano, invece, la situazione vede un netto vantaggio di Donald Trump in tutti i sondaggi in vista delle primarie. L'ex presidente, nelle ultime rilevazioni, viaggia intorno al 60%, mentre i due principali sfidanti (Nikki Haley e Ron DeSantis) sono più o meno appaiati intorno al 10%. La situazione del tycoon, però, è delicata per le diverse vicende legali che lo riguardano e che potrebbero vedere sovrapposte dinamiche elettorali e giudiziarie nel corso di tutto il 2024 (di questo parliamo nel paragrafo successivo).
Nelle ultime settimane, inoltre, due stati hanno emanato norme per estromettere Trump dalle schede elettorali. Il primo è stato il Colorado: la Corte Suprema locale ha infatti deliberato come l'ex presidente non possa essere candidabile in base al 14° emendamento, che proibisce la partecipazione alle elezioni a quelle persone che hanno giurato sulla Costituzione e poi hanno partecipato in maniera attiva ad una insurrezione.
Trump, secondo i giudici, sarebbe dunque escluso in virtù del ruolo avuto nei fatti del 6 gennaio 2021 (ovvero il giorno dell'assalto al Congresso). Pochi giorni fa è stata invece la volta del Maine, con la Segretaria di Stato (espressione del Partito Democratico) che ha dichiarato il tycoon incandidabile per gli stessi motivi. La questione riguarderà presto altri stati (Michigan e Minnesota hanno già rigettato l'istanza di incandidabilità), ma l'ultima parola spetterà alla Corte Suprema, che nelle prossime settimane sarà verosimilmente chiamata ad esprimersi sulla vicenda.
Ma, al netto di Trump, qual è la situazione delle primarie Repubblicane? Ad inizio anno Ron DeSantis appariva il più quotato sfidante, ma la sua campagna elettorale fino ad ora è stata pressoché disastrosa: se a febbraio il margine fra lui e il tycoon era di pochi punti percentuali, ora la differenza è di oltre cinquanta. Del resto, già dal mese di settembre per il governatore della Florida sono arrivati numeri negativi, che lo vedevano dietro Nikki Haley in diversi stati chiave. A questi si sono aggiunti problemi notevoli con il suo staff e con i finanziatori, dal momento che i pessimi sondaggi hanno frenato i suoi sostenitori.
Allo stesso tempo si registra la crescita di Nikki Haley, che pian piano sta emergendo come l'unica possibile sfidante di Donald Trump, tanto da star coalizzando dietro di sé tutti i Repubblicani che non si riconoscono nel tycoon, oltre ad aver maggior appeal nell'elettorato Indipendente e nei moderati che non sono soddisfatti di Biden. Solo il primo maggio DeSantis era al 22% e lei al quattro, mentre ora i due sono appaiati intorno al 10%. Stando solo ai sondaggi una sua vittoria appare improbabile, ma anche in questo caso le già citate questioni giudiziarie riguardante l’ex presidente potrebbero mischiare le carte in tavola.
Le incriminazioni di Donald Trump
Come già anticipato, il 2023 è stato anche l’anno in cui Donald Trump è stato al centro di diverse questioni dal punto di vista giudiziario. La più rilevante è l’incriminazione (che non corrisponde ad una condanna, ma bene o male all’apertura ufficiale del processo) in relazione al suo ruolo nell’assalto al Congresso avvenuto il 6 gennaio 2021. A riguardo i quattro capi di imputazione sono i seguenti: cospirazione per commettere un crimine contro gli Stati Uniti; cospirazione per interferire con una procedura ufficiale (quella di certificazione del risultato elettorale); tentativo di interferire con la procedura ufficiale di cui sopra; cospirazione per impedire agli elettori americani di far valere un proprio diritto, esprimere il proprio voto e farlo conteggiare.
Donald Trump rischia fino a 5 anni di carcere per il primo reato, fino a 20 anni per i due successivi e un potenziale ergastolo per il quarto. È in ogni caso probabile che le eventuali condanne saranno più lievi. Nello specifico, Trump è accusato di aver fatto di tutto per restare al potere dopo la sconfitta alle presidenziali: per fare ciò, avrebbe diffuso voci di brogli elettorali che lui sapeva benissimo essere false, al fine di creare "un'atmosfera tesa di sfiducia e rabbia" nella società e "minare la credibilità delle elezioni".
A questo si aggiungono altri due processi: uno si riferisce al possibile versamento di denaro in favore di Stormy Daniels, una pornostar con cui Trump avrebbe avuto una relazione nel passato e a cui il tycoon avrebbe dato circa 130.000 dollari prima delle elezioni del 2016, per ottenere il suo silenzio sulla vicenda. L’altro riguarda il possesso di documenti riservati, portati con sé nel resort di Mar-a-Lago dopo la fine della presidenza e per aver ostacolato la giustizia nel tentativo di recuperarli. Dei capi d’imputazione contro Trump, trentuno sono relativi alla presenza a Mar-a-Lago di documenti riservati, mentre altri riguardano l’ostruzione alla giustizia, l’omissione della fornitura del materiale alle richieste dell’autorità ed il tentativo di nascondere le prove. Se dovesse essere riconosciuto colpevole per queste accuse, l’ex presidente rischia da un minimo di 3 anni per ognuna fino ad un massimo di 20 anni di carcere per i fatti più gravi.
Ad ogni modo, anche se Trump venisse giudicato colpevole di una qualsiasi delle 78 accuse complessivamente a suo carico in questi tre processi e finisse in prigione per questo motivo, ciò non lo renderebbe inidoneo a candidarsi ed ad essere eletto presidente, non essendo previste alcuni restrizioni di sorta.
Le dimissioni di McCarthy, il caos, la nomina del nuovo Speaker
Una delle vicende politiche più importanti dell'ultimo anno è sicuramente la nomina e poi la rimozione di Kevin McCarthy da Speaker della Camera dei Rappresentanti. La sue elezione era stata una delle più tribolate nella storia americana: vista l'esigua maggioranza ottenuta dopo le midterm, lo stesso McCarthy aveva dovuto aspettare numerosi scrutini per vincere l'ostilità della minoranza interna al Partito Repubblicano e ottenere i voti necessari.
Fu proprio nell’occasione di quell’intesa che i deputati della fazione più a destra del partito hanno ottenuto l’abbassamento da cinque ad uno della soglia di voti necessaria per far partire la richiesta di estromissione dello Speaker dal suo ruolo. Fin da allora era evidente come il problema sarebbe esploso una volta arrivati alle votazioni riguardanti le questioni di budget: ciò che chiedeva l’ala più estremista del Partito Repubblicano era infatti una drastica riduzione della spesa pubblica.
La situazione si è infuocata durante le trattative per evitare lo shutdown, con il gruppo di deputati del GOP critico verso McCarthy che chiedeva a quest’ultimo un atteggiamento inflessibile, domandando tagli alla spesa e lo stop ai finanziamenti all’Ucraina. Questi ultimi non erano stati effettivamente inclusi nella norma, ma diversi esponenti (fra cui Matt Gaetz) avevano accusato McCarthy di aver stipulato un accordo con i Democratici per approvarlo in una legge separata. Fu proprio lo stesso Gaetz a fare partire la richiesta di estromissione, votata poi dai Democratici e da diversi Repubblicani.
Ne susseguì poi una lunga bagarre politica per la scelta del successore di McCarthy, con diversi nomi proposti e poi bruciati. A spuntarla fu, a sorpresa, Mike Johnson, poco noto al grande pubblico e politico che fino ad allora non aveva mai ottenuto incarichi di rilievo. La sua nomina è stata una grande vittoria per l'ala destra e ultraconservatrice del Partito Repubblicano, che è infatti partita subito all'attacco di Joe Biden dando il via a un'indagine per verificare la possibilità di mettere sotto impeachment il presidente. Sebbene prima della sua elezione Johnson avesse mostrato posizioni radicali su diversi temi, ha comunque mostrato una buona abilità nel cercare compromessi, raggiungendo a fine novembre un accordo ponte con i Democratici per evitare un nuovo shutdown.
Nonostante questo, però, il Congresso anche negli ultimi mesi dell'anno è rimasto ostaggio della polarizzazione politica fra i partiti. Questioni come l'invio degli aiuti militari per l'Ucraina si sono rivelati ostacoli spesso insormontabili nel dialogo fra le parti, tant'è che il Senato è arrivato alla pausa natalizia senza un accordo sul tema: della questione, infatti, si riparlerà solo a gennaio.
Israele e Ucraina: gli Stati Uniti di fronte alle crisi globali
L'attacco compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre contro Israele ha avuto effetti anche sulla politica americana. L’Amministrazione Biden ha prontamente condannato l’azione, dicendosi disposta a fornire tutto il supporto necessario allo Stato ebraico: gli Stati Uniti hanno predisposto il dislocamento di numerosi asset nell’area del Mediterraneo Orientale, tra cui due gruppi di portaerei, numerosi squadroni aerei e diversi sistemi THAAD con funzioni di deterrenza nei confronti di possibili attori ostili ad Israele interessati ad intervenire nel conflitto, in particolare Hezbollah. Washington si è altresì dichiarata pronta a fornire ad Israele tutto l’equipaggiamento necessario per la condotta delle operazioni militari nel territorio della Striscia di Gaza. Tuttavia tale proposito si è scontrato con il forte clima di polarizzazione politica attualmente presente negli Stati Uniti, il quale ha determinato l’impossibilità da parte del Congresso di approvare alcun significativo pacchetto di aiuti militari.
A tal proposito la Camera dei Rappresentanti, a maggioranza Repubblicana, ha approvato un pacchetto di aiuti per Israele dal valore di 14 miliardi di dollari, il quale aveva un grosso limite: non includeva alcuna forma di supporto per l’Ucraina. La Casa Bianca ha prontamente minacciato di porre il veto al provvedimento, richiedendo invece alle Camere l’approvazione di un gigantesco piano di aiuti dal valore di oltre 100 miliardi di dollari, di cui 61 riservati A Kyiv e 14 allo stato ebraico. Il Senato ha tuttavia fallito nel passaggio del provvedimento a causa dell’opposizione dei Repubblicani, i quali hanno lamentato la scarsa attenzione dell’Amministrazione alla sicurezza delle frontiere. Il Presidente Biden ha pertanto usato la determinazione di emergenza, eseguendo due trasferimenti di armi ad Israele (nello specifico munizioni d’artiglieria da 155mm e munizioni per carri armati), senza eseguire la Congressional Review necessaria per le vendite di armi a paesi stranieri.
Anche sotto il profilo diplomatico Washington è rimasta fortemente schierata al fianco di Israele: gli Stati Uniti hanno infatti rigettato una risoluzione non vincolante approvata dall’Assemblea Generale ONU, la quale richiedeva un cessate il fuoco umanitario, ponendo inoltre il veto ad una mozione simile al Consiglio di Sicurezza. Il conflitto si sta tuttavia rivelando estremamente problematico sotto il profilo politico, nello specifico su tre aspetti essenziali: situazione interna, questioni internazionali e rapporti tra USA e Israele. Sotto il primo, numerosi politici appartenenti alla corrente progressista del Partito Democratico hanno protestato vibratamente contro il supporto militare fornito allo stato ebraico, e una simile opposizione è stata portata avanti anche da numerosi musulmani americani, i quali hanno duramente contestato la gestione della crisi da parte del Presidente Biden, nonché dalla Commissione sui Diritti Civili.
In relazione al secondo aspetto gli Stati Uniti, nel loro fermo supporto ad Israele, hanno votato in maniera contraria ad alcune risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU richiedenti un cessate il fuoco approvate a larghissima maggioranza. La posizione degli USA nel “sud del mondo” rischia pertanto di essere seriamente compromessa dal conflitto. In ultima analisi, la guerra sta mettendo a dura prova i rapporti tra Stati Uniti e Israele. In particolare, l’Amministrazione Biden ha più volte mostrato una certa insofferenza per l’opposizione di Netanyahu alla soluzione dei due stati, con le parti che risultano profondamente divise circa le politiche da adottare al termine del conflitto.
Per quanto riguarda il conflitto fra Russia e Ucraina, a seguito del fallimento della controffensiva estiva da parte di Kyiv gli Stati Uniti necessitano di una adottare nuova strategia. L’amministrazione Biden potrebbe decidere di usare una tattica maggiormente difensiva, rafforzando le difese ucraine al fine di logorare le forze russe e consentire a Kyiv di arrivare in una posizione più forte al tavolo dei negoziati, per poi adottare una lunga strategia incentrata sul rafforzamento militare dell’Ucraina e sul contenimento della Federazione Russa.
L'aborto resta al centro dell'agenda politica
Anche nel corso di quest’anno, come prevedibile dopo il ribaltamento della sentenza emanata dalla Corte Suprema che ne regolamentava l’accesso, il tema dell’aborto è stato centrale nel dibattito politico americano. Se nei primi mesi del 2023 la battaglia è stata tutta sui tentativi di limitare la diffusione delle pillole con cui viene attuata tale pratica, con il passare del tempo la questione si è spostata soprattutto a livello elettorale.
All’interno del Partito Repubblicano chi ha assunto una posizione più morbida sul tema è stato proprio Donald Trump, anche in virtù dei contraccolpi alle urne provocati dalle limitazioni a tale diritto attuate localmente da diversi governatori del GOP. Nelle elezioni in cui il tema era centrale, infatti, coloro che si sono schierati a difesa di tale pratica hanno sempre avuto la meglio, anche in stati (come l’Ohio) che ormai sono saldamente conservatori.