Dentro il caos Repubblicano per la nomina del nuovo Speaker
Questa settimana parliamo del dibattito interno al Partito Repubblicano per la nomina del nuovo Speaker, della risposta americana alla situazione in Israele e delle elezioni in Louisiana
Dentro il caos Repubblicano per la nomina del nuovo Speaker
Nello scorso numero della nostra newsletter ci eravamo soffermati a lungo sulla decisione, operata dai Repubblicani, di estromettere Kevin McCarthy dalla carica di Speaker della Camera dei Rappresentanti. A distanza di una settimana la situazione relativa alla nomina del suo successore non è stata ancora sbrogliata, con un GOP diviso ed al momento ancora incapace di unificarsi dietro un nome comune. La maggioranza risicata in mano al Partito fa infatti sì che bastino pochi voti per affossare una candidatura, fattore che dà grande potere ai singoli deputati e che rende difficile il raggiungimento della maggioranza.
Rispetto a sette giorni fa, in ogni caso, ci sono comunque delle novità. Nello scorso numero avevamo parlato di due nomi in pole per ottenere la nomination, ovvero Steve Scalise e Jim Jordan. La candidatura del primo, però, è stata già affossata: sebbene nelle votazioni interne al partito fosse stato il più suffragato (con 113 voti contro i 99 del suo sfidante), ha deciso di rinunciare quando ha capito che non avrebbe avuto i numeri necessari per coalizzare dietro di sé l’intero GOP.
Questo è avvenuto perché diversi sostenitori del suo sfidante, ovvero Jim Jordan (che ha anche l’appoggio di Donald Trump), si sono rifiutati di votare per lui. Tale situazione, del resto, esprime in maniera lampante quelle che sono le divisioni interne al Partito alle quali abbiamo già accennato. In virtù di questo, Scalise ha compiuto un passo indietro in nome dell’unità, affermando: “Dobbiamo andare insieme, e questo non sta avvenendo”, sostenendo però che alcuni esponenti repubblicani devono ancora decidere se seguire questa linea o continuare a perseguire i loro interessi personali.
Il mancato appoggio collettivo nei confronti di Scalise ha creato inevitabilmente diversi malumori interni. “Steve ha vinto in modo corretto e leale, eppure c'è stata gente che si è rifiutata di votare per lui", ha dichiarato infatti Don Bacon del Nebraska (una delle figure che si era espressa in maniera molto critica nei confronti della rimozione di Kevin McCarthy). Come conseguenza, in ogni caso, il Partito Repubblicano ha scelto di procedere alla nomina dello stesso Jim Jordan come candidato alla carica di Speaker, con 124 voti a favore contro 81 del deputato della Georgia Augustin Scott, ma anche qui trovare una intesa sarà tutt’altro che semplice.
Proprio per questo i Repubblicani hanno scelto di non arrivare direttamente alla conta in aula, ma di aspettare qualche giorno per permettere a Jordan di trovare i numeri necessari per l’elezione. Il candidato deve vincere una certa resistenza da parte dei più moderati del GOP, derivato soprattutto dal suo essere un membro proveniente dall’ultradestra e fondatore del conservatore House Freedom Caucus. Stando all’opinione di diversi deputati che hanno parlato a microfoni spenti agli organi di stampa, sono diversi i rappresentanti contrari alla sua candidatura. Subito dopo la nomina, infatti, è stata tenuta un’altra votazione in cui è stato chiesto ai Repubblicani se fossero disposti ad appoggiare lo stesso Jordan, con 55 persone che si sono dette contrarie. Si tratta di un dato preoccupante, considerando come il partito possa perdere al più cinque voti.
Il problema, sottolinea il New York Times, sta anche nel fatto che fra diversi membri del GOP stia venendo meno la fiducia reciproca e la volontà di scendere a compromessi, cosa che sfavorisce la mediazione nonostante le differenze di vedute siano meno radicali di quanto possa apparire. Il Partito Democratico, inoltre, sta provando ad approfittare della situazione cercando un difficile compromesso con alcuni Repubblicani per trovare un nome condiviso in grado di iniziare con loro un governo di coalizione.
Un gruppo di quattro Democratici centristi, per questo, ha scritto una lettera allo stesso McHenry, proponendo un accordo a breve termine su pochi punti che possa permettere di far riprendere alla Camera dei Rappresentanti il suo normale funzionamento per far fronte alle numerose crisi che si stanno sviluppando su scala globale, non per ultima quella fra Israele e Palestina. Questa possibilità sta trovando la resistenza di numerosi membri del GOP ed è difficile che possa essere accolta in maniera positiva ma, secondo POLITICO, resta una opzione da tenere sul tavolo, anche in virtù delle difficoltà di coalizzare i Repubblicani dietro un unico nome.
David Joyce (R-Ohio), leader della Republican Governance Coalition ed uno dei principali sponsor di McHerny e della soluzione di compromesso, ha recentemente dichiarato: “Il mondo è in fiamme e noi dobbiamo fronteggiare i problemi. Non possiamo continuare così”. L’idea sarebbe quella di estendere i poteri attualmente detenuti dallo Speaker ad interim (anche se, oltre alle resistenze della quale si è già parlato, lo McHenry non sarebbe pienamente convinto).
La risposta americana alla situazione in Israele e Palestina
Negli Stati Uniti l’Amministrazione Biden ha espresso solidarietà verso Israele a seguito dei terrificanti attacchi terroristici operati da Hamas nella zona meridionale del paese, ma ha anche esortato privatamente lo stato mediorientale al rallentamento delle operazioni militari, per consentire un maggiore deflusso della popolazione civile palestinese dalle zone del conflitto.
Durante un discorso a Philadelphia, tenuto venerdì sera, il presidente Joe Biden ha espresso inoltre preoccupazione per la crisi umanitaria che sta avvenendo in queste ore a Gaza, affermando: “Non possiamo perdere di vista il fatto che la maggioranza dei palestinesi non ha nulla a che fare con Hamas”. Un ruolo importante, nella vicenda, lo sta avendo il Segretario di Stato Antony Blinken, inviato in Israele sia per esprimere solidarietà al paese aggredito sia per tentare di evitare una escalation che possa coinvolgere anche altre nazioni e organizzazioni, come l’Iran o Hezbollah.
Nella vicenda, in ogni caso, non è mancata la polemica politica. Il candidato Repubblicano Donald Trump, infatti, ha criticato sia il presidente israeliano Netanyahu che il ministro della difesa Gallant, definendoli deboli, sottolineando invece l’intelligenza di Hezbollah. La Casa Bianca ha risposto in maniera molto critica alla vicenda, dichiarando inaccettabili le parole dell’ex presidente, soprattutto in un momento come questo.
Al centro della questione c’è anche un versamento da sei miliardi di dollari che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sbloccare all’Iran (con l’intermediazione del Qatar) in cambio della liberazione di alcuni prigionieri politici americani, con la condizione che fossero utilizzati esclusivamente come aiuti umanitari. Questo denaro era parte di un versamento, poi bloccato, che la Corea del Sud doveva al paese asiatico come pagamento per delle forniture di petrolio.
Stando a quanto raccontato dal New York Times, questa somma sarebbe stata nuovamente bloccata in virtù del sostegno offerto dall’Iran nei confronti di Hamas.
Le elezioni per il governatore della Louisiana
Nella giornata di ieri si è votato in Louisiana per eleggere il nuovo governatore, la prima delle tre elezioni di questo tipo previste quest’anno (a novembre toccherà a Kentucky e Mississippi). Il governatore uscente, il democratico John Bel Edwards, non poteva ricandidarsi dopo i due mandati effettuati. Il sistema adottato è stato quello delle Jungle Primary, in cui tutti i candidati si sono scontrati tra di loro a prescindere dal partito di appartenenza, con un eventuale ballottaggio che sarebbe stato previsto se nessuno avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti.
A sorpresa, i repubblicani sono riusciti a riconquistare lo stato già al primo turno, grazie all’ex deputato ed attuale Attorney General Jeff Landry, sostenuto da Trump e dallo stato maggiore del partito, che ha ottenuto il 51.6%. Landry nel 2020 si era distinto per aver intentato una causa insieme al collega texano Ken Paxton per ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali. Sconfitto il democratico Shawn Wilson, che si è fermato al 25.9%.
Il GOP sale così a 27 governatori totali, mentre i democratici scendono a 23.
Le altre notizie della settimana:
Robert F. Kennedy Jr., figlio di Robert Kennedy (che nel corso degli ultimi anni ha assunto spesso posizioni antiscientifiche, ad esempio contro i vaccini), ha annunciato il suo ritiro dalle primarie del Partito Democratico per correre alle prossime elezioni presidenziali come candidato Indipendente.
I primi sondaggi rilevano come Kennedy abbia anche un discreto consenso. Una rilevazione di Reuters/Ipsos poll lo quota al 14 per cento, dietro il 33 di Trump e il 31 di Biden, mentre per Fox News è addirittura al 16 per cento (con gli altri due sfidanti appaiati al 41). Va sottolineato, comunque, che questi sondaggi effettuati a distanza di parecchio tempo dal voto vadano presi con le pinze e come sia effettivamente improbabile che un terzo candidato possa arrivare ad ottenere concretamente un consenso rilevante.
In occasione del 25esimo anniversario dell’uccisione di Matthew Shepard, torturato nella notte fra il 6 e 7 ottobre del 1998 (e morto pochi giorni dopo) in quanto omosessuale, il presidente Biden ha sollevato ancora una volta l’attenzione sul tema dell’intolleranza nei confronti della comunità LGBTQ+.
Come sottolineato da The Hill, Biden ha sollecitato il Congresso a modificare le leggi federali contro la discriminazione, elogiando inoltre i genitori, Judy e Dennis Shepard, che hanno co-fondato la Matthew Shepard Foundation.
Il senatore Democratico Bob Menendez (D-N.J.), che già nelle scorse settimane era stato incriminato per aver accettato tangenti per contribuire all'arricchimento di tre uomini d'affari e favorire il governo egiziano (processo per cui dovrà presentarsi in tribunale ma al cui riguardo si è dichiarato innocente) ha ricevuto adesso una nuova accusa, ovvero quella di aver agito come agente straniero in favore dell’Egitto.
La Camera dei Rappresentanti ha avanzato la proposta di unire in un unico grande piano di finanziamento gli aiuti all’Ucraina, ad Israele ed a Taiwan, in modo da facilitare l’approvazione di misure il cui passaggio sta diventando sempre più difficile in virtù dell’opposizione di una parte dei Repubblicani alla Camera.
Kari Lake, già candidata alla carica di governatrice dell’Arizona e fedele alleata del presidente Trump, ha annunciato la sua discesa in campo per la carica di Senatrice, nel seggio attualmente detenuto da Krysten Sinema. Alcune sue posizioni, in ogni caso, sono particolarmente interessanti: oltre ad aver dismesso una dialettica che puntava fortemente sulle accuse di brogli elettorali, ha anche fatto un passo indietro sulla possibilità di attuare un divieto nazionale all’aborto.
Questa posizione riflette un cambio di atteggiamento comune da parte di alcuni trumpiani, preoccupati dal fatto che una posizione antiabortista (sostenuta fortemente dall’ala più intransigente del Partito Repubblicano ma minoritaria nel paese) possa rivelarsi un boomerang alle elezioni generali.