La Corte Suprema potrebbe rivoluzionare l'accesso all'aborto
Questa settimana parliamo del ritorno dell'aborto alla Corte Suprema, della commissione sui fatti del 6 gennaio, del piano infrastrutturale, del conflitto israelo-palestinese e delle altre notizie.
La Corte Suprema chiamata ad un’importante decisione sull’aborto
Il tema dell’aborto torna al centro del dibattito politico americano, dato che la Corte Suprema è chiamata a discutere un tema che potrebbe stravolgere l’accesso a tale diritto negli Stati Uniti.
Anzitutto un chiarimento: il diritto all’aborto è regolato da una storica sentenza della Corte Suprema, che nel verdetto Roe vs Wade del 1973, ha affermato la legittimità di tale pratica. Da tempo, però, è attiva un’offensiva portata avanti da molti governatori, soprattutto repubblicani, che vorrebbero rovesciare l’attuale situazione, facendo tornare la questione di competenza degli stati (che potrebbero quindi facilmente limitare l’accesso per le donne).
Al centro della discussione una legge emanata dal Mississippi, che punta a restringere da 24 a 15 settimane (arco di tempo entro il quale molte donne non sanno ancora di essere incinta) il tempo massimo entro cui si può praticare l’aborto. Va chiarito che nello stato l’accesso a tale diritto è già molto complesso, ed è possibile in una sola clinica all’interno dell’intero territorio.
Uno degli obiettivi dei repubblicani dello stato era proprio quello di portare il tema sino alla Corte Suprema, nella speranza che la maggioranza conservatrice rinforzatasi sotto la presidenza di Donald Trump possa ritoccare o superare la Roe vs Wade.
La sentenza sarà discussa entro quest’anno, ma il verdetto dovrebbe arrivare nell’estate del 2022, trasformando il tema in un elemento di discussione in vista della prossima campagna elettorale per le mid-term del 2022.
Quali potrebbero essere le conseguenze di una scelta favorevole allo stato del Mississippi? Facile ipotizzare che si creerebbe una reazione a cascata, dato che all’incirca 20 stati repubblicani hanno espresso la chiara volontà di ridurre i termini temporali per abortire o rendere totalmente illegale la pratica.
Battaglia politica sull’assalto al Congresso
Al centro della scena torna anche l’assalto al Congresso, che lo scorso 6 gennaio sconvolse gli Stati Uniti e l’intero mondo occidentale. Sotto la spinta del Partito Democratico, infatti, la Camera dei Rappresentanti ha approvato l’istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare le responsabilità intorno a quanto accaduto.
La proposta è stata negoziata da diversi esponenti repubblicani, ed infatti sono stati ben 35 i membri del G.O.P. della Camera ad aver votato a favore di una proposta fuoriuscita da una lunga negoziazione fra le parti.
Eppure il destino della proposta sembra segnato, dato che l’opposizione del Partito Repubblicano al Senato rischia di far affossare il provvedimento, che non avrebbe la possibilità di trovare dieci voti del G.O.P. per superare il filibuster.
Procediamo però in maniera ordinata per raccontare la genesi e la storia di questo provvedimento. I due uomini incaricati nella ricerca di un accordo sono stati il democratico Bennie Thompson (D, MS-2) ed il repubblicano John (R, NY-24), uno dei 10 eletti del G.O.P. alla Camera che avevano votato per mettere sotto accusa Donald Trump.
Stando a quanto riportato da Thompson, le discussioni hanno avuto un rallentamento in prossimità di un accordo, dato che Katko chiedeva che al centro dell’inchiesta finissero tutti gli episodi di violenza politica degli ultimi anni. L’obiettivo era anche quello di attendere la decisione del suo partito a riguardo dell’esautorazione di Liz Cheney (ne abbiamo parlato la scorsa settimana).
Subito dopo, però, il leader della minoranza Kevin McCarthy ha posto ulteriori paletti, ed in una conversazione con Nancy Pelosi ha fissato in novembre l’orizzonte temporale entro cui avrebbe dovuto concludersi l’inchiesta, un arco di tempo abbastanza ristretto per un’analisi approfondita delle vicende.
Inizialmente anche al Senato alcuni repubblicani si erano mostrati possibilisti. Tutto è cambiato, però, dopo la presa di posizione da parte di Mitch McConnel, che dopo aver tenuto aperta la finestra per qualche giorno, ha espresso la sua contrarietà all’approvazione.
A ruota sono arrivate le dichiarazioni contrarie di numerosi altri repubblicani: fra queste, particolarmente pesante è stata quella di Richard Burr della North Carolina, che ha fatto capire ai suoi compagni di partito che per un’indagine seria sarebbero serviti diversi mesi, e quindi la questione sarebbe rimasta argomento di dibattito durante le prossime elezioni mid-term, in cui il G.O.P. ha buone possibilità di ottenere la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti.
Proprio questo tema sembra essere divenuto l’elemento centrale che ha portato al passo indietro repubblicano: non solo per questioni di visibilità, ma anche perché l’appoggio di Donald Trump è considerato fondamentale per ottenere nuovamente la maggioranza in almeno una delle due camere.
La situazione, in ogni caso, ha fatto emergere nuovamente le tensioni fra le diverse anime per Partito Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti. Una delle voci maggiormente critiche è stata quella del deputato dell’Ohio Tim Ryan, che ha affermato: “Accidenti, che incoerenza! Avete perseguitato per anni Hillary Clinton buttando via milioni di dollari per la vicenda di Benghazi e oggi non riusciamo a essere uniti di fronte a delle persone che attaccano il congresso con delle spranghe di ferro?”.
Il deputato ed ex candidato alla presidenza si riferiva alla lunga indagine portata avanti dal GOP contro la ex Segretaria di Stato Hillary Clinton per i fatti riguardanti l'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens, nel 2011.
Tentativo di Biden per cercare accordo bipartisan sulle infrastrutture
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rivisto al ribasso la cifra complessiva del piano sulle infrastrutture, uno dei punti centrali nel programma dell’inquilino della Casa Bianca, da 2250 miliardi a 1700 miliardi di dollari, andando incontro alle richieste del Partito Repubblicano, preoccupato per l’eccessiva spesa.
Biden da tempo ha mostrato di voler cercare un accordo con i repubblicani sulla questione e qualche giorno fa aveva anche incontrato i leader del G.O.P. alla Camera ed al Senato per trovare un compromesso. Questo accordo non sarebbe necessario per l’approvazione della legge (essendo una materia economica il filibuster può essere superato attraverso la misura del reconciliation budget), ma dalla Casa Bianca viene considerato un passo importante per ristabilire la fiducia nella democrazia e nella collaborazione fra le parti.
Nonostante questo, però, la strada resta in salita perché i repubblicani (che avevano già svelato una controproposta dall’ammontare decisamente inferiore, circa 568 miliardi, riguardante esclusivamente le infrastrutture fisiche) hanno definito il passo avanti di Biden “non incoraggiante”.
Biden esprime soddisfazione per il cessate il fuoco fra Israele e Palestina
Il presidente americano Joe Biden ha salutato con soddisfazione il cessate il fuoco raggiunto tra Israele ed Hamas durante un breve discorso tenuto ieri alla Casa Bianca, in cui ha affermatto che israeliani e palestinesi meritano "lo stesso grado di libertà, prosperità e democrazia".
L'Amministrazione Biden era stata sottoposta a critiche da parte della sinistra democratica per essersi rifiutata di chiedere sin da subito un cessate il fuoco, ma negli ultimi giorni, come vi avevamo riportato anche noi, era aumentata la pressione su Israele da più parti, incluso lo stesso presidente Biden che ha parlato per ben sei volte con il primo ministro Benjamin Netanyahu durante la crisi.
Biden ha poi ribadito il supporto americano per il diritto di autodifesa da parte di Israele e promesso che gli Stati Uniti faranno la loro parte per fornire ad Israele i missili necessari per il proprio sistema anti-missilistico Iron Dome. Allo stesso tempo Biden ha parlato della sua volontà di lavorare assieme all'Autorità Nazionale Palestinese in futuro, affermando che vede ora una "genuina opportunità" per raggiungere la pace nella regione.
Le altre notizie della settimana
Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale (DHS) ha annunciato ieri che intende chiudere due centri di detenzione dell'ICE che sono sotto indagine federale per accuse di abusi nei confronti dei migranti.
L'Amministrazione Trump ha "chiesto ed ottenuto in segreto" i dati email e telefonici del corrispondente della CNN al Pentagono, Barbara Starr. Lo ha reso noto la CNN dopo che il 13 maggio Starr ha ricevuto una lettera dal Dipartimento di Giustizia per informarla che i procuratori federali hanno ottenuto i suoi dati dal 1 giugno al 31 luglio 2017.
I dati ottenuti riguardano i suoi numeri di telefono di casa, di lavoro e cellulare, così come i suoi account email personali e di lavoro. Sebbene la richiesta sia avvenuta mediante un esposto dinanzi a delle corti lo scorso anno, non è chiaro al momento quando sia stata aperta l'indagine e chi fosse il Procuratore Generale in quel momento, se Jeff Sessions o William P. Barr. Non è neppure chiaro cosa intendesse ottenere l'Amministrazione Trump con questi dati, riporta la CNN.
Il governatore dello Stato di Washington, il democratico Jay Inslee, ha firmato ieri una decina di leggi per combattere contro la brutalità della polizia ed aumentare le responsabilità degli agenti in caso di malcondotte.
Il governatore del Texas Greg Abbott ha deciso di vietare a qualsiasi autorità dello Stato di imporre l'utilizzo della mascherina come precauzione contro il coronavirus. L'ordine riguarda in particolar modo contee, città e scuole e università.
La deputata Val Demings (D-Fla.) sarebbe pronta a candidarsi per sfidare Marco Rubio per il seggio al Senato in ballo a novembre del prossimo anno in Florida, invece che candidarsi come governatrice dello Stato. Sarebbe un nome di primissimo piano per i democratici, che comunque appaiono in grande svantaggio contro un esponente particolarmente forte come Rubio.
In settimana si sono tenute due interessanti votazioni in due città importanti. Il repubblicano anti-mask ed anti-restrizioni Dave Bronson ha vinto le elezioni per il sindaco di Anchorage. A Pittsburgh, invece, il progressista Ed Gainey ha sconfitto nelle primarie il sindaco uscente Bill Peduto.
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