America 2021, bilanci di fine anno.
Doveva essere l’anno della rinascita, è stato invece quello in cui gli Stati Uniti hanno faticato nel risolvere una lunga serie di contraddizioni interne che attanagliano il paese, nonché nell'uscire da una pandemia che continua a imperversare a quasi ventiquattro mesi di distanza dalla scoperta dei primi casi. La presidenza Biden, in tutto questo, non è riuscita a portare a termine alcuni di quelli che erano i suoi obiettivi iniziali: riunire l’America (proprio risalente alle ultime ore è un sondaggio per cui tre quarti dei repubblicani dubitano della sua vittoria nelle presidenziali) e dare una scossa forte all’economia (importante è stata l’approvazione del piano bipartisan sulle infrastrutture, ma lo stop al pacchetto di spesa sociale rappresenta un grosso ridimensionamento delle aspettative iniziali).
Lo shock iniziale: l’assalto al Congresso e il ruolo di Trump nei repubblicani
Che riunire il paese non sarebbe stato facile per il neo-eletto presidente lo si era capito fin da subito, perché il 2021 è iniziato con un enorme shock che ha sconvolto gli Stati Uniti e il mondo intero. Lo scorso 6 gennaio, quando il Congresso era riunito per certificare la vittoria di Joe Biden nelle presidenziali, una folla di estremisti di ultra-destra, alimentando teorie complottiste e spinta dalle parole di Donald Trump, che senza alcuna prova ha lanciato le accuse di brogli elettorali, ha assaltato il Congresso, penetrando all’interno del palazzo del potere.
Nel giro di pochi minuti le immagini della folla all’interno del Campidoglio, le voci di minacce agli eletti, le foto della devastazione fra le sale del potere hanno fatto il giro del mondo, facendo gridare comune indignazione. Anche gli esponenti repubblicani, allora, avevano denunciato con voce unanime l’accaduto, facendo pensare ad una diminuzione della presa che Donald Trump esercitava sul partito.
A quasi un anno di distanza, possiamo dire con ragionevole certezza che questo non è avvenuto, almeno non nelle dimensioni prospettate allora. Donald Trump rimane una voce più che autorevole all’interno del partito, anche solo perché la gran parte degli elettori continua a essere dalla sua parte. Anche gli esponenti di spicco, dunque, non hanno potuto che adeguarsi a tale situazione, facendo quadrato quasi in massa contro la proposta di impeachment e minando il percorso della Commissione d’Inchiesta volta ad accertare le responsabilità per quanto accaduto lo scorso 6 gennaio. Questo ha portato anche all’ostracismo per chi, come Liz Cheney (ex numero tre repubblicana alla Camera) aveva votato per condannare il tycoon.
Eppure, anche in questo quadro, emergono segnali di un lento e progressivo allontanamento del Partito Repubblicano da Donald Trump. L’esempio più lampante arriva dalle elezioni per il governatore della Virginia, dove si è imposto il moderato Glenn Youngkin, grazie alla sua strategia volta a mantenersi in equilibrio fra un atteggiamento responsabile e alcuni ammiccamenti all’ala più fedele all’ex presidente. Anche in Alabama, uno degli stati più “rossi” del paese, dove il candidato appoggiato da Trump Mo Brooks fatica ad emergere contro Katie Britt.
Biden e il sogno democratico, speranza disillusa?
Si era detto che Joe Biden non è riuscito nel suo intento di unificare il paese, ma la politica presidenziale ha faticato anche nel perseguire un’agenda che fosse in grado di portare a termine la maggior parte delle politiche del Partito Democratico. Le priorità erano infatti due: rinforzare la difesa sociale e aumentare la platea di persone che riescono ad avere accesso al voto.
In entrambi i casi, però, Biden non è riuscito a portare a termine l’obiettivo prefissato: la riforma elettorale è stata bloccata dal filibuster di un Partito Repubblicano che ha fatto sul tema una strenua opposizione (in alcuni stati approvando anche attraverso leggi restrittive sul tema), mentre il pacchetto di spesa sociale è rimasto al palo a causa delle numerose divisioni interne allo stesso Partito Democratico, che non è riuscito a operare la giusta sintesi fra l’ala moderata e l’ala progressista.
A livello numerico, in realtà, le divisioni sarebbero anche molto meno marcate di quanto possa apparire nel dibattito pubblico. A maggior ragione dopo il ridimensionamento del prezzo totale di quello che sarebbe stato il Build Back Better Act (passato da oltre 3.000 miliardi a meno di 2.000), infatti, la quasi totalità degli eletti si era espressa a favore dell’approvazione, nonostante opinioni diverse sul modo in cui sarebbero dovuti essere spesi i soldi da investire. Insuperabile, però, è stata l’opposizione di Joe Manchin che, insieme a Krysten Sinema (nelle ultime settimane passata però leggermente in secondo piano).
Per mesi il senatore della West Virginia, eletto in uno stato profondamente repubblicano e da sempre alla ricerca di un approccio bipartisan ai problemi, ha trattato per ridimensionare il prezzo globale del piano e per escludere alcune proposte dalla misura. Nonostante le lunghe settimane di negoziazione, però, l’intesa non è stata trovata: è stato lo stesso Manchin, nel mese di dicembre, a “premere il grilletto” e affossare definitivamente la misura, annunciando il suo voto contrario. Vista la parità di numeri al Senato (50 senatori democratici e 50 repubblicani) il suo appoggio era fondamentale, ragion per cui le speranze di una futura approvazione ora sono ridotte al minimo (anche se il dialogo resta vivo, specialmente su alcuni punti).
Questo, però, non ha impedito il passaggio di alcune misure di grande importanza come il Bipartisan Infrastructure Framework, un enorme e necessario investimento per migliorare lo stato delle infrastrutture del paese. Alla conclusione della presidenza mancano tre anni, ma vista l’attuale situazione è plausibile pensare che i prossimi siano gli ultimi mesi in cui i democratici possano disporre di una maggioranza alla Camera (gli attuali sondaggi sono molto sfavorevoli in vista delle midterm del 2022), ragion per cui l’agenda potrebbe essere presto bloccata.
Tutto cominciò con l’Afghanistan: il crollo di popolarità
Trovare l’esatto momento in cui ha inizio il crollo della popolarità del presidente è compito alquanto facile: il disastroso ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, che ha minato l’immagine sicura di un inquilino della Casa Bianca che dovesse portare ordine dopo il turbolento periodo trumpiano. Le immagini di un paese ripiombato nell’incubo dei talebani hanno iniziato a intaccare la reputazione di Biden, facendo scendere il tasso di approvazione.
A questo si sono aggiunti altri problemi, a partire dalla recrudescenza della pandemia: dopo mesi di relativa tranquillità garantita dalla campagna di vaccinazione, la variante Delta ha fatto crescere il numero dei casi di positività, minando un’economia in ripresa ma pur sempre molto fragile. A questo si aggiunge anche la mancata approvazione del pacchetto di spesa sociale, che ha fiaccato l’entusiasmo dell’ala progressista del partito.
Biden è infatti riuscito a raggiungere la Casa Bianca proprio per l’abilità con cui è stato in grado di tenere insieme sia la sinistra che il centro moderato: nei primi mesi di mandato sembrava che questa unione potesse essere tenuta in piedi, ma con il passare del tempo sono emerse le difficoltà.
Dimostrate anche dai risultati elettorali non entusiasmanti che hanno accompagnato il 2021 democratico: catastrofica è stata la sconfitta nelle elezioni per il governatore della Virginia, dove Terry McAuliffe è stato surclassato dal repubblicano Glenn Youngkin, in uno stato dove il partito del presidente otteneva successi in agilità da diverso tempo. Pessimo segnale è arrivato anche dal New Jersej, dove è arrivata sì una vittoria, ma con un margine molto basso rispetto a quelli degli ultimi anni.
Una situazione frutto anche del mancato entusiasmo con cui i democratici si sono recati alle urne, che abbinata al crollo di popolarità di Biden apre numerose incognite in vista delle prossime midterm. Mantenere la maggioranza alla Camera e al Senato, al momento, appare molto complesso.
La battaglia sull’aborto: sarà un 2022 delicato
Uno dei temi maggiormente delicati, durante l’ultimo anno, è stato quello relativo al diritto d’aborto. Va anzitutto ricordato che quest’ultimo, negli Stati Uniti, non è regolato da alcuna legge federale, ma da una decisione della Corte Suprema (Roe v Wade) che lo ha reso legale in tutto il paese.
Negli ultimi anni, però, è stata lanciata un’offensiva da parte dei repubblicani per provare a rovesciare questa sentenza, con la nomina di diversi giudici poco favorevoli all’aborto operata da Donald Trump. Un primo successo sembra essere stato raggiunto: la Corte ha infatti rifiutato di bloccare una legge del Texas che vietava l’aborto se non nelle primissime settimane di gravidanza, quando molte donne ancora non sanno di essere incinta.
La decisione ha alimentato numerose proteste, provocando anche l’intervento della Casa Bianca e riaccendendo il dibattito sul tema. Che si surriscalderà ancora nel 2022 quando votando sulla legittimità di una legge del Missouri la Corte Suprema sarà chiamata a decidere se tenere in vita la stessa sentenza Roe v. Wade. Le prime notizie a riguardo parlano di una maggioranza favorevole quantomeno ad una parziale abolizione, ma la questione sarà più chiara con il tempo. E potrebbe avere anche un importante impatto elettorale in vista delle Midterm.
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